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venerdì 12 ottobre 2018

Ho fotografato una lampada




Interno giorno, di una casa sul mare



Due mesi fa ero ospite in una casa bellissima.

Come spesso accade quando sono in giro, porto con me una macchina fotografica istantanea.

Rimasta sola, nel salone  di quella casa, mi guardavo intorno, come si fa nei musei, leggendo didascalie non scritte. 
Immaginavo, raccontandomi i racconti che mi hanno raccontato.
Insomma, immaginavo e basta.

In cucina, una pentola con l'acqua che bolliva.
Nella stanza accanto, un padre e un figlio.
Nel negozio quattro piani più sotto, una donna a comprare un ingrediente dimenticato.
Sul terrazzo una tavola apparecchiata per cinque.
Anche l'attesa era invitata a pranzo quel giorno.

E nell'attesa, ho fotografato una lampada.

Mi sono avvicinata, ho scattato, è partito il flash, e la scatola magica ha sputato l'immagine.

Una macchina fotografica senza pretese, a differenza mia,  quando si tratta di scattare per ricordare.
La mia pretesa di cogliere i dettagli con una macchina del genere, in un giorno del genere, sapevo essere un azzardo, il fatto che la foto sia fuori fuoco, mi ricorderà l'azzardo e l'ultima volta in quella casa.

Va sempre così quando c'è da attendere che qualcosa si realizzi.

Realizzare è un verbo straordinariamente bello, o terribilmente brutto.

Quel giorno era terribile e basta.

Lo sapevamo tutti, non lo diceva nessuno.

E ho fotografato una lampada.

Il terribilmente brutto non merita, di sentirsi dire cheese.

E da quel genere di lampada, non escono desideri.

Ho strofinato la macchina fotografica, che ne ho realizzato uno, uno dei tre, per gli altri due non c'è nessun cristo che tenga, certe cose vanno lasciate andare.

Resta una brutta foto.
Resta una buona foto.

Al padre e al figlio immagino restino gli sguardi, e le bugie di serenità, che si ingoiano nei momenti in cui l'attesa è un ospite che vorresti cacciare a calci in culo fuori dalla porta.

Ho fotografato una lampada di un padre che se n'è andato, e questa volta se n'è andato per davvero.

Quella lampada non l'ho mai vista accesa, quel padre, è padre della persona che amo.

Quel padre la vita, l'ha regalata a me, senza prendersi la cura di incartarla.

Io e il suo regalo ci siamo portati via!

Avrei dovuto almeno ringraziare, ma ho atteso troppo.

E comunque, una stretta di mano in questo caso, non sarebbe bastata.
Per alcuni figli, i casi di farsela bastare, sono sempre.
 
C'è un cavo che passa dietro questa lampada, dalle forme femminili. 

Bellissime le forme femminili, come bellissimi sono gli occhi degli uomini che non sanno opporre resistenza al fascino.
Dannatamente stronza la bellezza, a tal punto che un uomo, a volte finisce per confondersi, inciampare, zoppicare e sventolare la resa incondizionata, in nome di un altro amore.

Accade mai, alcune volte, molte volte, definitiva volta.
 
Ho fotografato una lampada, con un interruttore nascosto.

Il dolore, come quel cavo, ce lo si lascia alle spalle, prima o poi.

Prima o poi si seguirà quel cavo, per cercare l'interruttore, e vedere se la luce funziona.

Prima o poi arriverà l'impulso che accende il perdono per un amore che ha rinunciato all'amore per te.

Non è un attendere, questo non lo è, la luce si accenderà all'improvviso.

D'altronde lo sai che va così, tutte le cose belle arrivano all'improvviso, e si lanciano tra le tue braccia.
Il conforto dell'abbraccio che darai a te stesso, amore mio ti permetterà di sentire la presenza nell'assenza.

E funziona, tanto che tu conosci un padre che non hai mai vissuto, anzi ne conosci due, uno mio e uno tuo, entrambi un pò nostri.
Del mio, ti restano i miei occhi, del tuo quel che resta, me lo racconterai.


Ho fotografato una lampada a Roma, due mesi fa.








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